Il 13 novembre 2024, presso la Corte d’Assise d’Appello di Torino è iniziato il processo di secondo grado del filone casalese dell’Eternit Bis, con sei udienze previste entro Natale.
“L’aula è la stessa di 15 anni fa. Nell’alba lattiginosa del 10 dicembre 2009 si stagliavano solo i nitidi colori bianco, rosso e verde del tricolore attraversati dalla scritta nera Eternit Giustizia. Le bandiere erano mantelli sulle spalle di centinaia di persone che partirono su diversi pullman organizzati dall’Afeva (Associazione Famigliari e Vittime Amianto), da piazza Castello a Casale per raggiungere Torino dove si sarebbe svolta la prima udienza di quello che è stato chiamato Maxiprocesso Eternit”, riporta la collega Silvana Mossano dopo la prima udienza.
Partendo dai suoi reportage sul processo Eternit Bis, ripercorriamo le tappe salienti delle nuove udienze che si sono tenute a Torino e che vedono imputato Stephan Schmidheiny, ex patron dell’azienda Eternit. L’accusa è omicidio doloso per 392 vittime causate dall’amianto, materiale che – ricordiamo – provoca il mesotelioma pleurico: tumore raro e assai aggressivo correlato all’esposizione delle fibre d’amianto che ha un incubazione molto lunga. Motivo per cui, nonostante oggi Casale Monferrato sia amianto free grazie a massicci interventi che la rendono una delle città più bonificate, sono ancora molti i casi di mesotelioma pleurico.
Nella prima udienza del 13 novembre la presidente della Corte Cristina Domaneschi ha riepilogato la sentenza di primo grado emessa a giugno 2023 dalla Corte di Assise di Novara in cui venne riconosciuta la responsabilità di Schmidheiny pur, però, escludendo il dolo e attribuendo colpa per negligenza.
Il 13 novembre, per la consapevolezza dei rischi da parte dell’imputato, l’accusa ha evidenziato il ruolo del convegno di Neuss del 1976, dove egli avrebbe ammesso di conoscere i pericoli dell’amianto. Il manuale “Auls 76”, scritto in un secondo convegno, per l’accusa fu, poi, una vera e propria strategia di disinformazione per tutelare il mercato dell’amianto e rassicurare i lavoratori della mancanza di prove sulla pericolosità dell’esposizione alle fibre.
Sulla diagnosi di mesotelioma, invece, l’accusa ha ribadito la validità delle 392 diagnosi di mesotelioma, contestando le argomentazioni difensive che puntavano sulla presunta inadeguatezza dei metodi diagnostici storici.
Nella stessa udienza, inoltre, la procuratrice Sara Panelli ha individuato cinque elementi di eccezionalità:
- L’elevato numero di morti a Casale Monferrato rispetto alla media nazionale.
- La posizione preminente di Schmidheiny nel mercato globale dell’amianto.
- Il silenzio sull’accertata pericolosità dell’amianto.
- La dignità delle vittime e delle loro testimonianze.
- L’introduzione del concetto di giustizia riparativa come opportunità di riconciliazione che non interferisce in alcun modo con l’ambito penale.
La seconda udienza
Durante la seconda udienza – tenuta lo scorso 21 novembre -, la procura ha di nuovo evidenziato come Schmidheiny fosse pienamente consapevole dell’estrema pericolosità dell’amianto, ignorando i ripetuti allarmi dell’Ispettorato del Lavoro e le prove della contaminazione: che si estendeva sia all’interno degli stabilimenti sia nell’ambiente circostante. Le fibre di amianto si disperdevano a causa di scarti, lavorazioni e trasporti non sicuri, interessando anche le comunità locali. Nonostante gli investimenti dichiarati dall’azienda in misure di sicurezza, per la procura questi interventi erano inadeguati e motivati più dalla necessità di garantire la continuità operativa e il profitto economico che dalla volontà di proteggere la salute dei lavoratori e dei cittadini.
La procura ha inoltre accusato l’azienda di aver deliberatamente minimizzato i rischi sanitari, negando la pericolosità dell’amianto e attribuendo i problemi di salute ad altre cause, con l’obiettivo di evitare il panico tra i lavoratori. Nonostante la consapevolezza della letalità dell’amianto, Schmidheiny avrebbe continuato a utilizzarlo finché non fosse diventato economicamente insostenibile.
La difesa, invece, ha sostenuto che Schmidheiny avesse cercato di migliorare la sicurezza negli stabilimenti, ma la procura ritiene che gli sforzi siano stati insufficienti e subordinati agli interessi economici. Inoltre, ha criticato la sentenza di primo grado per aver escluso 46 casi di vittime sulla base di incertezze diagnostiche, ribadendo che anche esposizioni indirette, fino a un raggio di 10 chilometri dal sito, aumentano significativamente il rischio di mesotelioma. La procura ha difeso l’importanza dell’epidemiologia nel dimostrare il legame tra esposizione all’amianto e le malattie.
In conclusione, la procura ha rinnovato la richiesta di ergastolo per Schmidheiny, sottolineando che l’imputato avrebbe continuato la produzione consapevole dei rischi per motivi di profitto. Il dramma dell’amianto non si è mai fermato: dal 2016 altre 441 persone si sono ammalate, e le vittime continuano ad aumentare, come dimostra il caso della giovane Elena Gaia, morta proprio il giorno successivo all’udienza.
La terza udienza
Nella terza udienza dello scorso 27 novembre, invece, l’avvocata Laura D’Amico, rappresentante storica delle parti civili nelle vicende Eternit, ha analizzato la condotta di Stephan Schmidheiny nel decennio 1976-1986, quando era a capo dell’azienda. Si è concentrata sulle decisioni prese dall’imputato alla luce delle sue conoscenze e del contesto familiare privilegiato, che gli forniva una consapevolezza particolare sui rischi dell’amianto. Secondo D’Amico, Schmidheiny, in qualità di giurista e dirigente di un’azienda leader nel settore, era perfettamente consapevole delle norme di sicurezza da adottare e dei pericoli del materiale lavorato.
Il concetto di dolo è stato discusso dall’accusa attraverso un’analisi della condotta: non è necessario un contatto diretto con le vittime, ma è sufficiente che l’imputato abbia accettato consapevolmente il rischio delle conseguenze mortali delle sue scelte.
L’avvocata ha sottolineato che, benché l’uso dell’amianto fosse legale fino al 1992, esistevano norme precise già negli anni ’50 per minimizzare i rischi, che l’azienda non avrebbe rispettato. Invece di adottare provvedimenti di sicurezza, Schmidheiny avrebbe prodotto direttive volte a evitare che le informazioni sui pericoli venissero divulgate. Questo comportamento, secondo l’avvocata, non può essere attribuito a imperizia, imprudenza o negligenza, ma a una decisione consapevole e razionale.
Un altro tema rilevante è stato quello dei risarcimenti: Schmidheiny avrebbe cercato di evitare responsabilità stipulando accordi economici vincolati alla rinuncia di ulteriori azioni legali. Inoltre, dopo il fallimento dell’Eternit nel 1986, l’imputato avrebbe lasciato gli stabilimenti in condizioni disastrose, scaricando sui Comuni e sugli enti locali l’onere della bonifica.
L’avvocato Giacomo Mattalia, invece, ha affrontato il tema della validità delle diagnosi di mesotelioma, sottolineando come queste siano frutto di procedure multidisciplinari precise e aggiornate. Le diagnosi, anche quando basate su tecniche meno avanzate rispetto a quelle odierne, sono state validate attraverso revisione e aggiornamento da parte dei consulenti della Procura. Questo aspetto è cruciale per sostenere la connessione tra le condotte di Schmidheiny e le morti contestate.
L’avvocata Esther Gatt, poi, ha illustrato gli effetti devastanti delle condotte aziendali sull’ambiente e sulla popolazione di Casale Monferrato, dove molte delle vittime non avevano mai lavorato nello stabilimento, ma erano state esposte all’amianto indirettamente. Ha descritto pratiche pericolose, come l’assenza di misure per prevenire la diffusione della polvere tossica attraverso gli indumenti dei lavoratori, e la distribuzione del cosiddetto “polverino” senza controlli adeguati.
Dal lato della difesa, gli avvocati Guido Carlo Alleva e Astolfo Di Amato hanno contestato vari aspetti del processo, tra cui la corretta traduzione degli atti, la gestione dei campioni biologici e la violazione del principio del “ne bis in idem”, sostenendo che Schmidheiny non poteva essere giudicato due volte per gli stessi fatti già oggetto del Maxiprocesso Eternit 1. Hanno anche criticato la decisione di giudicare l’imputato per omicidio doloso invece che colposo.
La difesa ha inoltre evidenziato difficoltà nell’accesso ai campioni diagnostici, necessari per verificare l’esattezza delle diagnosi, e ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla questione del “ne bis in idem”. Infine, hanno sollevato dubbi sulla competenza territoriale, sostenendo che il processo avrebbe dovuto svolgersi presso il tribunale di Vercelli.
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